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Dentro e fuori, il Cassero e la città

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La sede dell'Arcigay "Il Cassero", Bologna

Prima di tutto un po’ di memoria storica. Non è la prima volta che al Cassero di Bologna avvengono fatti che si vorrebbe non accadessero lì, in quella che è considerata, a ragione, una delle case del movimento di liberazione omosessuale italiano. La più vecchia e, quindi, quella che si osserva con maggior attenzione. Sono troppo giovane (relativamente a quanto sto per ricordare) per essere stato iscritto all’associazione e per averla frequentata negli anni ’80 del secolo scorso. Ciò nonostante, siccome sono una persona a cui piace bere e chiacchierare, alcuni amici e alcune amiche più anziani mi hanno raccontato di quando a Bologna esplose il fenomeno delle tossicodipendenze, specialmente da eroina. Fenomeno che si presentò anche dentro le mura di Porta Saragozza, prima e storica sede dell’Arcigay. Si registrarono presenze indesiderate, scoppi improvvisi di violenza verbale e fisica, anche grave. All’inizio si reagì tentando di allontanare le persone identificate come responsabili, poi, verificato che anche questi provvedimenti erano insufficienti a ristabilire quell’indispensabile clima di serenità interna al circolo e alle serate organizzate, si procedette a una chiusura temporanea delle attività d’intrattenimento. Le attività associative – telefono amico, consultorio per la salute, gli incontri dei vari gruppi di studenti, il coro, la biblioteca e il centro di documentazione, la libera università omosessuale – proseguirono senza alcuna variazione. Dopo qualche mese si riavviarono anche le cosiddette “serate danzanti”, prestando una maggiore attenzione a chi si faceva entrare nei locali del circolo. Questa soluzione si dimostrò efficace e per anni, fino al trasferimento all’attuale sede della Salara, non vi furono più problemi. E’ qui, in via Don Minzoni, che i problemi si sono ripresentati e non certo per una responsabilità del direttivo e di chi lavora per l’associazione. Occorre sforzare la mente, guardarsi attorno, scrutare la città, vedere com’è cambiata, per comprendere cosa succede nel 2014 dentro l’associazione. La Bologna degli anni 2000 e seguenti non è più, infatti, la Bologna degli anni ’80 e ’90 del Novecento. Quella d’allora era una città ricca di iniziative dal basso, nate dalla contaminazione tra residenti e studenti, pullulava di collettivi, di spazi e di case occupate, di centri sociali. In questo magma di difficile definizione o, meglio, ontologicamente mai statico, indefinibile, il Cassero si collocò come una mosca bianca, come una feconda contraddizione: da una parte scelse la via della legittimazione istituzionale, chiedendo ed ottenendo una sede dal Comune, dall’altra si pose in relazione diretta con quel mondo politico, culturale, sociale, che del riconoscimento istituzionale faceva a meno o lo avversava. Anche per questo suo ruolo di cerniera tra la politica ufficiale e i movimenti, il Cassero è ciò che è oggi: una realtà senza la quale non è più pensabile immaginare la nostra città. Vi sembra poco? A me no. Vi sembra una scommessa vinta? A me sì. A partire dal 1994, con l’elezione del sindaco Vitali e del compromesso storico tra post-comunisti e democristiani, e a seguire con le successive Amministrazioni, assistiamo a un processo di capitalizzazione del centro storico, di impoverimento culturale, di spietata esautorazione dei fermenti dissidenti. La Bologna di oggi è una città che, dentro le mura del centro storico, conta nessuna – ripeto nessuna – realtà nata dal basso e autogestita, con a disposizione grandi spazi, che produca anche intrattenimento. Tutto è stato espulso, trapiantato, soffocato, allontanato con le buone e, più spesso, con le cattive. Per andare nei centri sociali occorre prendere dei taxi o delle navette. Se sei giovane, la “Bologna che si gira a piedi” è un’immagine da cartolina ben lontana dal vero. Le Amministrazioni degli ultimi vent’anni perseguono con coerenza un progetto delirante, quello di trasformare il centro storico medioevale più grande al mondo e meglio conservato in un dormitorio alto-borghese. In questa ottica va letta la famigerata “caccia ai graffiti”, benedetta dai sindaci imbianchini. Se il Cassero non ha subito la stessa sorte del Link, dell’Isola nel Cantiere, del Tpo, non è perché il Comune s’è fatto uno scrupolo d’essere più gentile e premuroso nei confronti dei froci e delle lesbiche, bensì perché noi avevamo “in ostaggio” qualcosa che il neoperbenismo democristiano voleva indietro: Porta Saragozza, sotto le cui arcate passa la processione diretta al santuario della Madonna di san Luca. Per questa ragione il nostro peso contrattuale al tavolo delle trattative ha permesso di portare a casa una sede non punitiva: la Salara, dove ci siamo trasferiti nel 2001. Ancora oggi ringrazio la mia sorte per essermi slogato un dito e aver avuto una scusa valida per non dover sollevare quelle centinaia di scatoloni che hanno appesantito il trasloco. Improvvisamente, quelle cose leggere, fatte di piume, sete, glitter, malmesse palle da discoteca, una volta inscatolate, hanno ricordato anche a noi froci che la legge di gravità non guarda in faccia a nessuno. Cazzo, quanto pesavano! Non c’era solo un nuovo luogo ad accoglierci; una città intorno a noi era cambiata. Ce ne siamo accorti subito e non è stato un bel impatto. Serate che a Porta Saragozza macinavano un centinaio di persone, da un giorno all’altro ne ospitavano quattro o cinque volte tanto. Sì ok, un bel successo, a prima vista. A bussare alle porte della Salara erano persone che non avevamo mai visto: eravamo rimasti l’unico luogo in centro città che, per di più a prezzi assai calmierati, organizzava momenti di danza e di divertimento. E la situazione, dal 2001 ad oggi, non è cambiata. Anzi, se possibile è peggiorata, complice una crisi economica che rende tutti più instabili, più precari, attenti all’occasione da non perdere. In questo contesto, a mio avviso, va inserito anche l’ultimo, pesante episodio di violenza, con le conseguenze che sappiamo, per chi ne è stato vittima (massima solidarietà) e per l’associazione. Chi governa la città ha deciso da tempo che i giovani, gli studenti, i movimenti, sono problemi da risolvere con l’ordine pubblico, con le ruspe, con i fogli di via. Il deserto che questa politica di criminalizzazione produce si ripercuote a cascata sulla nostra associazione, ultimo avamposto sulle mura di una città non più accogliente. Allora, che fare? Questa è la domandona da mille punti, a cui non pretendo d’offrire una risposta. Quella che è anche la mia associazione non la vivo più nella quotidianità; abito per metà dell’anno a 13.000 km di distanza. Se dicessi ora ai consiglieri del Cassero e a chi ci lavora come comportarsi, mi sentirei come se chiamassi al telefono qualcuno a casa sua e gli domandassi indignato: “Hai fatto le pulizie?”. No grazie, di interessamenti senza coinvolgimenti in prima persona è pieno il mondo degli indici e dei medi sollevati. Ho invece fiducia nell’intelligenza collettiva dell’associazione. Chi ha delle responsabilità saprà trovare la soluzione migliore, senza inseguire la stampa, dandosi il tempo necessario per individuarla. Ripensando il rapporto tra dentro e fuori, tra il Cassero e la città. Questa città, quella presente, perché il punto, ineludibile, è questo. Del resto siamo froci e lesbiche e sappiamo bene come rinascere a nuova e miglior vita.


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